Mercurio, giunto ad Ogigia sente la ninfa che cantava con voce leggiadra e fra i fili tesi dell’ordita tela lanciava la sua spola d’oro e ammira l’isola:
“…E tra i lor rami fabbricato il nido/ S’aveano augelli dalle lunghe penne,/ Il gufo, lo sparviere e la loquace/ Delle rive del mar cornacchia amica. / Giovane vite di purpurei grappi/ S’ornava e tutto rivestia lo speco. / Volvean quattro bei fonti d’acque d’argento,/ …e di viole…”
Calipso, sentendo il volere di Giove commentò tristemente che quegli stessi dei quando Ulisse peregrinava e subiva la sorte avversa non lo aiutarono, ed ora, che lei lo aveva accolto e nutrito e amato, gli ingiungevano di lasciarlo andare. In ogni modo gli fornisce il legname per costruire la sua zattera ed i pani ed il vino per rifocillarsi durante la navigazione. Gli da anche dei vestiti adatti e gli promette un vento favorevole :
“…Che alle contrade tue ti spinga illeso…”
Quindi Ulisse prende il mare e:
“…Lieto l’eroe dell’innocente vento,/ La vela dispiegò. Quindi al timone/ Sedendo, il corso dirigea con arte,/ Né gli cadea sulle palpebre il sonno/ Mentre attento le Pleiadi mirava,/ E il tardo a tramontar Boòte e l’Orsa/ Che detta è pure il Carro, e là si gira,/ Guardando sempre in Oriöne, e sola/ Nel liquido Oceàn sdegna lavarsi/ L’Orsa, che Ulisse, navigando, a manca/ Lasciar dovea, come la diva ingiunse.”
Dunque, ecco un’ulteriore traccia che svela i luoghi, Calipso aveva informato Ulisse che per tornare ad Itaca doveva navigare lasciando a sinistra le stelle della costellazione del Carro. Ora se partissimo con la barca dalla nostra Ogigia dovremmo proprio seguire questa rotta per andare ad Itaca.
Naturalmente le vicissitudini di Ulisse non finiscono qui. Mentre naviga verso Itaca incorre nelle ire di Poseidone, ed entra in campo quella Leucotea di cui abbiamo accennato prima.
Ecco cosa succede in una sintesi narrata da Rinaldo Chidichimo in “La vera storia di Leucotea, Ulisse e l’isola di Ogigia”:
“Lo scorse la figlia di Cadmo, Ino dalle belle caviglie,
Leucotea, che era mortale un tempo, con voce umana,
e ora tra i gorghi del mare ha in sorte onori divini.
Ebbe pietà di Odisseo, che errava soffrendo dolori:
come una procellaria emerse a volo dall’acqua,
si posò sulla barca e gli disse:
Infelice, perché Poseidone che scuote la terra è irato così tremendamente
da darti tante disgrazie?
Eppure non può rovinarti, anche se molto lo brama.
Ma tu fa così – non mi sembri uno sciocco:
togliti questi vestiti, abbandona ai venti
la zattera dei Feaci dove è destino che scampi.
Ecco stendi sotto il petto questo velo
Immortale: non aver timore di soffrire o morire!
Ma appena toccherai con le mani la terra,
scioglilo e gettalo subito nel mare scuro come vino, molto lontano da terra
e tu voltati via.
Detto così, la dea gli dette il suo velo,
e come una procellaria si immerse
subito nel mare ondoso: la coprì l’onda scura.
Così Omero nell’Odissea (V, 335-354) racconta di come Leucotea salvò dalle ire di Poseidone Odisseo nel viaggio di ritorno verso Itaca.”
Ecco il poema, il mito ed il mistero che nella presentazione di “Per l’alto mare aperto” di Eugenio Scalfari si chiede: “…E perché Ulisse all’improvviso si disinnamora di Calipso, appena lei gli offre l’immortalità? Scalfari, che da vecchio umanista conosce il languore mediterraneo per la secca di Amendolara, dove leggenda vuole fosse l’isola di Ogigia, teatro degli amori omerici…”. Domande, alcune senza risposta, se non nel fascino dei luoghi.
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